Giovani in crisi: il paradosso del benessere e l’allarme di Stefano Benzoni

Rosa Ferrante 11 Novembre 2025
Giovani in crisi: il paradosso del benessere e l’allarme di Stefano Benzoni
Hanno tutto, eppure stanno male. È questa la contraddizione che attraversa la nostra epoca e che lo psichiatra Stefano Benzoni ha avuto il coraggio di nominare con chiarezza: i giovani di oggi vivono in un mondo che offre infinite possibilità, ma che troppo spesso li lascia svuotati, in bilico tra l’ansia di essere e la paura di non bastare. Non manca nulla sul piano materiale, eppure cresce un disagio che non si può ignorare.
È un dolore che si esprime in modo silenzioso, spesso invisibile, ma che trova nei numeri un grido evidente: l’uso di psicofarmaci tra adolescenti è in aumento, segno che qualcosa si è spezzato nel rapporto tra le nuove generazioni e la vita. Non si tratta di fragilità individuali, ma di un malessere collettivo. Il benessere, se non è sostenuto da un senso, diventa un guscio vuoto.
I ragazzi crescono in un tempo che non conosce tregua. Vivono immersi in un flusso continuo di stimoli, informazioni, immagini, confronti. Devono scegliere presto, capire chi sono, essere performanti, brillanti, felici. Ma l’adolescenza non è fatta per la perfezione: è il tempo del disordine, della ricerca, dell’errore. Oggi, invece, è diventata una corsa a ostacoli, un percorso a tappe forzate dove la fragilità è vista come un difetto da correggere. Si cresce dentro una cultura che esalta la potenza e disprezza la lentezza, che confonde il valore con il risultato e l’identità con l’immagine.
Dietro l’iperconnessione si nasconde una solitudine profonda. I giovani parlano con il mondo intero, ma spesso non riescono più a parlarsi dentro. La rete promette legami e offre invece confronti estenuanti, paragoni continui, modelli irraggiungibili. È una vetrina dove tutti mostrano il meglio di sé, e chi non riesce a reggere quel ritmo finisce per sentirsi invisibile. La mente si sovraccarica, il cuore si chiude, e l’unico modo per stare a galla sembra diventare il silenzio o, peggio, la resa.
Anche il mondo adulto, però, porta la sua parte di responsabilità. Genitori e insegnanti vivono la stessa pressione dei figli, lo stesso senso di inadeguatezza. Invece di offrire esempi di stabilità e fiducia, spesso trasmettono ansia e paura. Nel tentativo di proteggere i ragazzi dal dolore, li privano della possibilità di affrontarlo. Ma crescere significa proprio questo: cadere, capire, rialzarsi. Non servono adulti perfetti, servono adulti presenti. Persone capaci di dire “non so”, ma di restare. La presenza è oggi la più grande forma di cura.
Il ricorso agli psicofarmaci, allora, non è solo un fatto clinico, ma una spia di qualcosa di più profondo. È il segno di una società che tende a medicalizzare l’anima, a sedare il disagio invece di ascoltarlo. Il dolore non è un errore da cancellare, è un linguaggio da decifrare. Quando un ragazzo si spegne, la domanda non dovrebbe essere “che cosa non va in lui?”, ma “che cosa abbiamo smesso di offrirgli noi?”. Forse non servono nuove risposte, ma nuovi silenzi, nuovi abbracci, nuovi spazi per respirare.
Per uscire da questo paradosso serve un cambio di sguardo collettivo. Restituire tempo all’adolescenza, dignità alla fragilità, valore all’attesa. Insegnare che non tutto si misura, che non ogni talento deve diventare prestazione, che la vita è fatta anche di lentezza e di vuoti. Offrire ai giovani esperienze vere, concrete, dove possano sentire di esistere al di là del giudizio. Creare luoghi di comunità, dove la condivisione torni a essere più forte della competizione.
Il disagio dei ragazzi non è un problema da risolvere in fretta, ma un messaggio da ascoltare con serietà. È la richiesta urgente di un mondo più autentico, dove si possa essere umani senza sentirsi sbagliati. Perché la fragilità non è la fine della forza, è il punto da cui ricomincia.
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