La Politica Economica italiana

Giuseppe Montuori * 29 Agosto 2023
La Politica Economica italiana

Iniziamo col dire che la “politica economica” è una delle branche dell’economia politica (scienza che studia o analizza la situazione economica esistente cioè, attuale), insieme alla microeconomia (lo studio dei sistemi economici su piccola scala, ad es. le teorie economiche applicate a un individuo, ad un'azienda, ecc.) e alla macroeconomia (lo studio dell’economia a livello mondiale).

Più in generale, la politica economica di un Paese comprende tutta una serie di regole e di azioni che il governo persegue per raggiungere gli obiettivi prefissati sia nel settore economico che in quello sociale. Pertanto, l'insieme degli interventi posti in essere da una Nazione sull'economia del paese, costituisce la politica economica, naturalmente non è possibile definire una politica economica senza conoscerne l’attuale situazione, per meglio dire, lo stato di salute dei “conti pubblici”.

Parafrasando un vecchio detto, non è possibile stabilire il futuro, senza conoscere il presente e/o passato. Al Ministero dell'Economia e delle Finanze (MEF) competono le funzioni di indirizzo e di regia della politica economica e finanziaria complessiva dello Stato. L'Ecofin (Consiglio di economia e finanza), invece è il responsabile delle politiche economiche e fiscali e delle regolamentazioni dei servizi finanziari dell'Unione Europea. Prendono parte all'Ecofin i ministri dell'economia e delle finanze degli stati membri dell'Ue.

È palese che una giusta politica economica non può fare almeno di una adeguata politica fiscale e monetaria, le due cose, infatti, viaggiano di pari passo. La politica fiscale, costituisce un elemento essenziale al quale un governo prudente, presta molta attenzione, all'interno della politica di bilancio, essa rappresenta quella parte della politica economica che studia le possibilità, le strategie di intervento in campo economico facendo leva su una spesa pubblica controllata, mirata ed efficiente alla quale contrapporre un prelievo fiscale proporzionato e mai oppressivo, è cosa nota che un fisco esoso è l’antitesi della crescita economica, inoltre una pressione fiscale alta influenza negativamente il livello della domanda, con inevitabili ripercussioni anche sull’evasione fiscale (altro fenomeno perturbativo dell’economia reale del Paese).

Infatti il danaro che una persona giuridica e/o fisica riceve in meno, perché destinato al prelievo forzoso, quali sono “imposte” (
tributi imposti dallo Stato che non corrispondono ad alcuna prestazione specifica ma basati sulla ricchezza, es. Ires, Irpef ecc.) e “tasse” (somme di denaro versate allo Stato o ad altro Ente impositore in cambio di servizi specifici, es. Tari), se venissero lasciate in percentuali maggiori a entrambi, molto verosimilmente, verrebbero destinate ad altre finalità (aziendali), ancorché in parte, già è prevista una sorta di detassazione per quella parte di utili reinvestiti, mentre le persone fisiche utilizzerebbero la maggiore disponibilità finanziaria, per ulteriori acquisti, sia essi beni che servizi e, indubbiamente, il mercato beneficerebbe  di una circolazione di ricchezza superiore che andrebbe ad influire positivamente sulla questione occupazionale, in sostanza ne trarrebbe giovamento l’intero sistema. Un esempio in tal senso viene dall’aliquota IVA al 38% (vigente negli anni ’80) sui beni di lusso, ebbene si pensò di racimolare più soldi dai possessori di tali beni, facendone aumentare vertiginosamente i prezzi. Si riteneva, infatti, che gli acquirenti di una imbarcazione, avessero una corposa disponibilità monetaria, per cui potevano sostenere un maggior onere finanziario.

Purtroppo così non fu, l’intero mercato dei natanti, infatti, subì una forte contrazione e a pagarne maggiormente le spese (e non ci voleva la famosa zingara per indovinarlo), furono proprio gli operai, perché la riduzione delle vendite, provocò una naturale diminuzione della mano d’opera e, in generale, di tutti occupati in tale settore. Governo, sindacati ecc. fecero tesoro dell’errore fatto e grazie anche ad un principio di standardizzazione dell’imposta in ambito europeo, fu deciso (per il bene dell’intero indotto), di riportare l’IVA sui beni di lusso, all’aliquota ordinaria.

Naturalmente in un Paese come il nostro, con un debito pubblico elevato, l’autorità di governo deve, da un lato, impegnarsi alla riduzione del deficit nazionale mediante la contrazione della spesa pubblica (quella italiana è una delle più alte) e, dall’altro, impiegare le risorse disponibili in modo da assicurare i servizi essenziali ai ceti più disagiati. Una Nazione ben amministrata non deve avere una spesa pubblica “allegra”, altrimenti i conti salterebbero e lo Stato andrebbe in default ma, neanche, una spesa pubblica ristretta, sarebbe la panacea per l’economia, infatti si avrebbe una sorta di stagnazione economica.

A tal uopo,
John Maynard Keynes, uno dei più illustri economisti del novecento, sosteneva che “domanda e offerta non si incontrano spontaneamente: se i privati, per qualsiasi ragione, non spendono, i soldi non spesi vengono sottratti al processo di creazione della ricchezza; di qui la necessità di un intervento statale per rimettere in sesto l'economia e sanare gli squilibri del sistema”. Per Keynes di fronte ad una recessione economica, l'incremento della spesa pubblica riequilibra il reddito nazionale.

Sicuramente non con bonus, mance varie né, tantomeno, con il reddito di cittadinanza, palliativi quest’ultimi distanti anni luce dalla teoria Keynesiana. Sempre secondo Keynes: “deve essere lo Stato a fare ciò che l'economia privata, da sola, non riesce a fare”. In particolare la sua teoria propone i lavori pubblici come antidoto alla crisi: strade, ferrovie, case.

Oggi potremmo aggiungere: banda larga, assetto del territorio disastrato, energie verdi ecc. Lo Stato deve impegnare le proprie risorse economiche creando nuove opportunità di lavoro nella costruzione di opere utili ed importanti e non elargire danaro pubblico a destra e a manca, perché questa strategia politica non porta alcun miglioramento economico/sociale, né tantomeno crea nuove opportunità occupazionali, è solo propaganda. E’ cosa nota che le forze governative devono mettere a disposizione  innumerevoli azioni per orientare positivamente la vita economica, incentivando l’attività produttiva (perché le aziende creano lavoro, non gli aiutini di stato), valorizzando le risorse umane, anche attraverso una forte decontribuzione per le imprese che assumono nuovo personale, inoltre, in caso di nuovi rapporti di lavoro in luoghi distanti dalla residenza del neo assunto, almeno per i primi mesi, sarebbe opportuno ad esempio aiutare quest’ultimo anche nel sostenimento del costo del fitto dell’abitazione nel paese di nuova destinazione, mediante un contributo economico ad hoc.

L’economia va risollevata creando nuova occupazione e, i posti di lavoro, li creano le aziende, infatti, proprio nei confronti di quest’ultime che occorre una maggiore attenzione da parte del governo. Come diceva il vecchio cummenda milanese ad un suo dipendente: “se sto bene io, vai bene anche te”. Fermo restando i diritti dei lavoratori, l’azienda va salvaguardata e, non vista come la vacca dalla quale mungere latte a volontà.  Perché quel latte deve servire agli operari (per il sostentamento delle proprie famiglie) ma, anche all’impresa per tenersi in vita ed affrontare i rischi di mercato, con maggiore serenità. Un discorso a parte, invece, va fatto per le Aziende di Credito.

Quest’ultime già durante il periodo pandemico, hanno ricevuto dalla BCE denaro a basso costo, in parte per far fronte a qualche difficoltà interna, causata anche dal particolare periodo di crisi e, in parte, per aiutare le imprese/famiglie (bisognose), mediante la concessione di prestiti/finanziamenti con bassi tassi di interesse. Purtroppo quest’ultimo obiettivo, non sempre ha avuto facile realizzo da parte delle banche che, al contrario, hanno sì ricevuto, denaro ad un prezzo conveniente ma, lo hanno a loro volta, prestato a famiglie/aziende, ecc., con tassi d’interesse, tutt’altro che agevolati, contravvenendo alle direttive emanate della BCE. Tale comportamento, ha portato nelle casse degli Istituti di Credito un surplus di liquidità. In questo caso, il governo, ha adottato una politica di equità fiscale, tassando parte dei maggiori utili realizzati dalle Aziende bancarie, a discapito di chi effettivamente aveva bisogno di un prestito agevolato e, al contrario, ha dovuto accollarsi tassi di interessi non vantaggiosi, contrariamente a quelle che erano le intenzioni della Banca Centrale Europea.  

La politica monetaria, diversamente, racchiude tutta una serie di strategie con cui la banca centrale influenza l'offerta di moneta. Essa condiziona, in larga parte, i mercati delle attività (in senso lato). Più in generale, la politica monetaria riguarda le decisioni prese dalla Banca centrale per orientare in particolar modo il costo e la disponibilità del denaro nell'economia. Nella zona euro la decisione di politica monetaria più importante della Banca Centrale Europea (BCE) è solitamente quella sui tassi di interesse di riferimento. La strategia di politica monetaria della stessa è ispirata e vincolata dal mandato conferitole dal Trattato sull’Unione europea (firmato a  Maastricht il 7 febbraio 1992, ed entrato in vigore il 1º novembre 1993, che  ha creato le premesse per la moneta unica europea: l'euro) e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (firmato a Lisbona nel 2007, la cui funzione principale è quella di regolare il funzionamento dell'Unione europea e di determinare i settori, la delimitazione e le modalità d'esercizio delle sue competenze). L’obiettivo primario della BCE è salvaguardare la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, garantendo, nel contempo, una crescita economica equilibrata (mantenendo un'inflazione positiva ma moderata, fondamentale per agevolare le aziende, i consumi e l'occupazione) ed un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale.

Tuttavia allo scopo di ridurre la percentuale di inflazione (fenomeno perturbativo dell’economia, che comporta l’aumento dei prezzi e la diminuzione del potere d’acquisto della moneta, intendendo per potere d’acquisto, la quantità di beni e servizi che si possono acquistare con una unità di moneta), nell’eurozona, la francese Christine Lagarde, colei che nel novembre 2019, ha sostituito Mario Draghi alla guida della BCE, sta attuando una politica di aumento dei tassi di interessi sui rifinanziamenti e depositi bancari, con il risultato di aumentare il costo del denaro che, a sua volta, dovrebbe essere il deterrente per l’abbassamento dell’inflazione che, lo scorso dicembre 2022 era vicina al 12% mentre, allo stato, è vicina al 6%. Naturalmente questo comporta un maggiore aggravio finanziario per quelle famiglie e/o imprese che hanno chiesto un mutuo (a tasso variabile) o per chi non lo ha ancora chiesto ma, è in procinto di farlo. Ma, cerchiamo di capire perché c’è stato questo innalzamento inflazionistico. Come nella maggior parte dei casi, per ogni evento c’è un motivo giustificativo, ebbene, in questo caso, i motivi sono tre, almeno i principali. In primo luogo, “la rapida riapertura delle attività economiche”: con la graduale revoca delle restrizioni pandemiche, l’economia (non solo italiana), è ripartita velocemente.

Le persone, improvvisamente, hanno ripreso le abitudini pre-pandemia (viaggi, ristorante, divertimenti ecc.), sono aumentati gli acquisti, spendendo quella parte di denaro accumulato nel periodo del lockdown.  È cosa nota che quando un’economia cresce, è più facile per le imprese incrementare i prezzi senza perdere clienti, perché la cosa, passa quasi inosservata. Tuttavia, a un certo punto, quegli acquisti di beni e servizi rinviati durante la pandemia, avranno una fine. È chiaro che non tutti i settori si muovono però allo stesso ritmo. Molte aziende hanno avuto difficoltà a tenere il passo con il rapido aumento della domanda, dovendo ripristinare le catene di rifornimenti duramente colpite dalla pandemia. Problemi come la carenza di container ad es. hanno fatto lievitare i costi di trasporto delle merci, creando non poche difficoltà alle aziende. Inoltre i maggiori acquisti di dispositivi elettronici, materiale per la manutenzione dell’abitazione ecc., hanno costretto le imprese ad aumentare la propria produzione rispetto a quanto avessero preventivato.

Componenti importanti come i semiconduttori sono tuttora di non semplice reperimento, costringendo le case automobilistiche a ridurre la produzione di auto. Quando le imprese hanno difficoltà a stare al passo con il ritmo di acquisto dei consumatori, i prezzi subiscono un incremento e, in economia questo fenomeno prende il nome di “legge della domanda e dell’offerta”.  In secondo luogo (il rincaro dei prodotti energetici), petrolio, gas ed elettricità sono diventati più costosi nell’eurozona. Numerosi fattori incidono sui prezzi dell’energia: nel Regno Unito le pale eoliche non hanno potuto funzionare a causa della minore intensità dei venti, in Brasile le centrali idroelettriche hanno risentito della siccità, per fortuna che l’inverno non proprio freddo dello scorso anno non ha depauperato del tutto le nostre riserve di gas e petrolio. Insieme all’aumento della domanda, ciò ha determinato un rapido incremento dei prezzi.

Poiché i costi per le imprese e i cittadini sono in ampia misura connessi ai beni energetici, il prezzo del petrolio, del gas e dell’elettricità ha un forte peso sull’inflazione complessiva. Il recente rialzo dell’inflazione è infatti riconducibile per metà all’incremento dei prezzi nell’energia. Essendo influenzati da numerosi fattori, non è quindi inconsueto che i prezzi dell’energia oscillino fortemente verso l’alto e verso il basso. Purtroppo prima l’effetto pandemia e, poi (in misura superiore) l’effetto della guerra, hanno ulteriormente provocato un innalzamento dei prezzi dei prodotti energetici, disastrando ancor di più l’economia dell’eurozona che, stava dando i primi segnali di ripresa, dopo il periodo pandemico.  In terzo (ed ultimo) luogo, durante la pandemia, i prezzi sono stati sostanzialmente bassi, in parte anche per effetto di una riduzione dell’Imposta sul Valore Aggiunto in Germania che, dal giugno 2020, scende dal 19 al 16%. Confrontando i prezzi più elevati di oggi con quei livelli più esigui, le differenze appariranno sostanziose.

Questo fenomeno, è noto come “effetto base”, vale a dire la comparazione tra due periodi diversi. Inoltre, riallacciandoci a quanto in precedenza evidenziato, in quest’ultimo periodo, si sta parlando molto (da parte delle opposizioni), di un abbassamento delle accise sui carburanti allo scopo di ridurne il prezzo. Vale la pena ribadire che circa il 55% del prezzo di benzina/diesel, è rappresentato dalle imposte, ed una loro riduzione, costerebbe alle casse dello Stato 12 miliardi di euro all’anno (1 mld. di euro al mese), strategia quest’ultima che, purtroppo, le nostre già disastrate casse non possono permettersi.

Il bilancio dello Stato è una cosa seria, non si può addebitare un nuovo costo/spesa se prima non si hanno le coperture (certe e non presunte) per farlo, se i saldi non quadrano i conti saltano e si rischia il default. Ma questo non lo stabilisce la premier Giorgia Meloni, al contrario presso il MEF c’è la Ragioneria Generale dello Stato che, assicura l’unità di indirizzo e la prontezza delle registrazioni contabili, in modo da tenere costantemente informato il governo delle entrate e delle uscite e, più in particolare, dello stato di salute dei conti pubblici. Questo consente di avere sempre il controllo della situazione e, apportare eventuali correttivi, in caso di bisogno.

Infine, la crisi del settore immobiliare cinese rischia di travolgere il mondo intero, in Europa quella più esposta sembra essere la Germania, per i maggiori investimenti intercorsi col mercato del Dragone, tutto ciò potrebbe avere, un effetto domino per l’aumento dei prezzi, vanificando il lavoro delle banche centrali.


* Dottore in Scienze della Pubblica Amministrazione 

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