AMERICAN TRAVELS - MEMORIAL and MUSEUM 11 SEPTEMBER 2001

P. Gerardo Santella 10 Settembre 2025
AMERICAN TRAVELS - MEMORIAL and MUSEUM 11 SEPTEMBER 2001

Iniziamo oggi una rubrica quindicinale fatta di appunti, fotogrammi, sequenze riguardanti la cultura, la società e l’arte americana, tratti dai miei taccuini scritti in occasione dei miei cinque viaggi a New York (1980, 2008, 2010, 2015, 2025) e in sette Stati degli U.S.A. Iniziamo. In occasione dell’anniversario della strage terroristica dell’11 settembre 2001 con la visita al museo ad essa dedicata a New York.

Il Memorial

Ci arrivi uscendo dalla metro di Fulton Street e appena fuori in strada già vedi svettare in alto l’One World Center. Dopo una breve camminata sei nella enorme e animata piazza che ospita un bosco urbano di 400 querce e due vasti specchi d’acqua. Il primo sguardo, di meraviglia, è in su, all’edifico più alto dell’America con i suoi 541 m., 1776 piedi (numero scelto perché rappresenta l’anno della Dichiarazione dell’indipendenza degli Stati Uniti) e gli altri tre grattacieli, su cui il sole batte provocando cristalli di luce.

Ma nell’avvicinarti alle due fontane e alla vicina sede dell’attentato terroristico dell’11 settembre, scende il silenzio. Entri in uno spazio sacro, separato dai rumori della città. È come se tu fossi in chiesa durante una cerimonia funebre.

Le due enormi vasche, grandi quattro mila metri quadrati l’una, sono scavate proprio dove si trovavano le Torri gemelle, a rappresentare il visibile ricordo di un’assenza, il grande vuoto lasciato dai due edifici scomparsi. Le acque, che scendono a cascata lungo le quattro pareti inclinate e confluiscono in una vasca interna, di cui non si vede il fondo, sono uno spettacolo strabiliante ma ti danno anche un senso di vertigine, come se stessi per precipitare in un baratro e inabissarti. Proprio come molte vittime dell’attacco del 2001, cui vai immediatamente con il pensiero quando gli occhi finiscono sulla lista dei nomi e cognomi, scolpiti nel parapetto su pannelli di bronzo che corrono lungo il perimetro dei due quadrati. Uomini, donne, bambini, persone che stavano lavorando, accomunati da una morte crudele.

Il Museo

Vai al Museo. Una struttura moderna con ampie pareti di vetro da cui filtra la luce esterna, Ma la luce dura poco. Perché deve scendere in basso, nelle fondamenta dell’edificio.

E arriva il buio.

Ti accolgono, scorrendo su uno schermo. Le espressioni dei volti in primo piano, di perone che hanno assistito alla tragedia: orrore, tristezza, incredulità, dolore rabbia afflizione, i sentimenti che tutti noi abbiamo provato nel guardare la tragedia in diretta per televisione.

Affacciandoti da una grande balconata, vedi giù una scritta fatta di caratteri d’acciaio, che riempie la prima parete:

NO DAY SHELL ERASE YOU FROM THE MEMORY OF TIME

(Nessun giorno vi cancellerà dalla memoria del tempo), una citazione dall’Eneide del poeta latino Virgilio, riferita al sacrificio dei due giovani troiani, Eurialo e Niso, nella loro incursione nel campo dei Rutuli.

Parole che possono essere lette come commemorazione delle vittime, ma anche come un memento del terrore e dell’agonia che molti vissero in quel giorno fatale.

L’entrata stessa al museo è stata concepita come una citazione visiva del VI libro dell’Eneide: un viaggio negli Inferi, tra i morti, per trarre auspici per il futuro.

Scendi in basso, là dove stavano le fondamenta che non hanno retto allo schianto degli aerei e al calore delle fiamme.

La luce svanisce. Avvolto nel buio, come in un girone dantesco, ti aggiri in quell’aura senza tempo tinta.

Non c’è un percorso unico consigliato. Ti guida lo sguardo, l’occhio, il pensiero.



E così ti soffermi a guardare la bandiera a stelle e strisce, slabbrata e annerita, che svettava su una delle Torri; i resti carbonizzati del primo mezzo dei vigili del fuoco, arrivato sul posto pochi minuti dopo il primo attentato; travi di acciaio che si elevano a formare due croci vicine, quasi a rappresentare un moderno Calvario o aggrovigliate a terra in un informe ammasso di mostruose sculture; Lady Liberty, una statua replica della Statua della Libertà, donata in ricordo della squadra dei vigili del fuoco che perse la vita dando soccorso ai feriti, ricoperta con piccoli oggetti personali regalati da familiari, amici delle vittime e cittadini newyorkesi, come resti delle uniforme, bandierine americane, banconote, spillette, rosari, biglietti e cartoline. Non puoi non fermarti davanti a quello che resta l’ultimo blocco di ferro e cemento delle fondamenta, l’ultimo pezzo di colonna spostato da Ground Zero, diventato un punto di riferimento per le famiglie delle vittime, che vi attaccavano biglietti, fotografie e altri oggetti.

Ti fermi spesso, non per la stanchezza, ma a pensare.

Scendi ancora, e stavolta con commozione, perché muovi i passi su una scala originaria di pietra, rimasta in piedi frantumata e sconnessa.



Entri in un alto cubo, dove alle pareti scorgi le foto delle 2752 persone che sono morte quel mattino.

Prosegui.

Finora sei stato circondato dal silenzio, non hai avvertito rumori, suoni, né sentito scambiarsi parole, fare commenti¸ le visioni le hai interiorizzato, ti hanno portato a pensare, non a parlare. Come tutti gli altri visitatori.

Attraverso una porta a vetri sei nel museo vero e proprio. Ci sono tutti i ricordi di quel giorno. Ti emozionano soprattutto gli oggetti personali e domestici: pettini, taccuini, occhiali, portafogli, orologi, fazzoletti, bambole di pezza, orsacchiotti, cagnolini di peluche, borse, scarpe, palline da baseball, biciclette, sedie, chiavi, carte di credito, fototessere.

Ma qui, proprio come nell’inferno dantesco, il silenzio è interrotto da sospiri, pianti e alti guai…/ diverse lingue, orribili favelle / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche: la dichiarazione di guerra di Bin Laden, le interruzioni dei telegiornali locali: “Esplosione a Manhattan…Gli Stati Uniti, New York sono sotto attacco”; le ultime telefonate dei passeggeri dei due aerei, le urla dei terroristi, i messaggi lasciati sulle segreterie telefoniche da decine di persone intrappolate nei due grattacieli in fiamme, le dichiarazioni ufficiali dei politici, i pianti e le grida di dolore di chi ha assistito al crollo.

Rivivi quel giorno come se ci stessi dentro in quel momento.

Infine ti addentri in un angolo buio, ancora più cupo degli altri, quasi introvabile.

Al suo interno sul muro ti vengono mostrate le immagini di chi, in preda al panico, si è gettato nel vuoto. Due secondi ti bastano. Se guardi ancora, piangi

Risali ed esci. Torni alla luce e rivedi il sole. Con sollievo. Come a liberarti da un sottile senso di smarrimento e di disagio.

Ma sei stato toccato profondamente. Hai vissuto una esperienza sensoriale ed emozionale fortissima, le immagini e le voci di quel giorno ti hanno lacerato il corpo, ti sono entrate dentro, hanno toccato le visceri, provocato turbamento, ti lasciano ancora per lungo tempo a riflettere.

Una esperienza analoga solo a quella provata attraversando i campi di sterminio degli Ebrei ad Auschwitz e Birkenau.

Di quelle che ti segnano per sempre.

Survivor tree

Nel riattraversare il boschetto esterno noti molte persone raccolte in silenzio intorno a un albero. incuriosito ti avvicini: non è una quercia, ma un pero, l’unico albero sopravvissuto agli attacchi al World Trade Center; scoperto e liberato dai cumuli di macerie, bruciato, carbonizzato, con un solo ramo vitale e pochissime speranze di sopravvivere, è stato curato, nuovamente trapiantato ed oggi, di nuovo fiorito, è il simbolo della speranza e della vita che rinasce e continua.

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